Tutti quanti, nessuno escluso, veniamo prima o poi in contatto con opere che tenderanno ad influenzare il modo in cui verranno percepite tutte quelle successive… sono quelle opere che definirei di “formazione“, ed è un discorso che ritengo valido anche in altri ambiti, come ogni forma di letteratura, musica, cinematografia… È possibile, senza essere troppo riduttivi ed etichettanti, inquadrare le preferenze in fatto di manga di ognuno di noi partendo proprio da queste opere di formazione, che non sono necessariamente le prime affrontate ma quelle che hanno attivamente contribuito alla formazione di un “linguaggio interiore“. E il motivo per cui non parlo troppo di shonen (action) manga è connesso proprio a quelle che sono le mie opere di formazione, che mi hanno portato a “praticare” un linguaggio parlato da pochissimi. Fin’ora vi ho parlato di lingue che ho dovuto apprendere, quest’oggi invece voglio spendere qualche parola su quella che è la mia lingua madre, presentandovi due manga casualmente entrambi iniziati nel 1987, uno nella Shogakukan e uno nella Kodansha. Già sapere la loro casa editrice è sufficiente per capire quanto sia distante il mio approccio al manga da quello più comune, orientato verso Jump.
Nel Settembre 1987 su Weekly Shonen Sunday della Shogakukan iniziava Ranma 1/2, il nuovo manga di un’autrice che già aveva prodotto opere di successo come Lamù e Maison Ikkoku: Rumiko Takahashi. A differenza dei suoi precedenti lavori questo presentava talmente tanti di quegli elementi da risultare immediatamente un successo esplosivo: arti marziali miste a dinamiche sentimentali, umoristiche e gender bender (Ranma è uno dei titoli più noti di questo genere) tutte arricchite dallo stile di un’autrice che mai ha dimenticato la sua terra di origine e le sue tradizioni. L’azione è uno degli elementi dominanti di questo manga, data la natura particolarmente litigiosa del suo protagonista che lo porta ad accettare o ricercare praticamente qualsiasi tipo di sfida, che porti o meno all’uso della forza bruta. La Takahashi, con le sue sfide fatte di condizioni strampalate aveva in qualche modo modernizzato una tipologia shonen in cui la risoluzione di un problema non passava direttamente attraverso la lotta; questo aspetto è oggi caratteristico della produzione di molti autori, ed è tranquillamente accettato sotto l’etichetta shonen action. Laddove la Takahashi vuole inserire combattimenti, a tutti i livelli di serietà, quello che caratterizza il suo stile è l’uso e il mantenimento di temi specifici, secondo cui i personaggi hanno un modo di agire legato a quello che è il loro stereotipo. Un cuoco combatterà con attrezzi da cucina, per esempio, con tecniche tutte connesse alle sue attività quotidiane: un po’ come i ninja nella corte dell’Imperatore, che si spacciavano per giardinieri.
La caratteristica principale di questo manga è la sua struttura autoconclusiva: sebbene ogni manga ancora sfrutti questa dinamica dividendosi in archi narrativi, soprattutto nel genere umoristico, gli autori moderni sviluppano comunque una trama lineare che intreccia tutti questi capitoli creando una condizione di continuità, mentre, nel lavoro della Takahashi, questa linearità non è ricercata e ogni arco narrativo termina con un ritorno alla condizione iniziale di quiete; è tranquillamente definibile come una struttura circolare. Questo stile era già vecchio in quegli anni, eppure con Ranma si presenta perfettamente collaudato e funzionale: una volta organizzato un nucleo principale di personaggi l’autrice si è sbizzarrita a inserirli in ogni situazione le venisse in mente, non senza essere a rischio di cali di ispirazione. Questo stile permette un continuo rinnovo delle situazioni garantendosi un ritmo narrativo sempre elevato, tuttavia è possibile individuare alcune storie meno brillanti di altre. Questo, a differenza di manga strutturati in modo lineare, non crea mai un grosso problema proprio in virtù del fatto che non vengono trascinati gli errori nei capitoli successivi… eppure in Ranma esiste una sorta di storia, come nei Simpson, ci sono degli eventi che segnano i personaggi e restano nella memoria collettiva fino al momento in cui l’autrice ritiene buono il momento per tirarli nuovamente fuori dal cilindro. E tra questi elementi vi sono le esperienze in combattimento.
Cosa che molti ignorano, in Ranma esistono colpi energetici: questo vuol dire che esiste anche una sorta di energia che ne permette l’utilizzo, e la Takahashi, senza complicare eccessivamente la situazione decide di appoggiarsi alle emozioni. Questi colpi possono essere usati da persone con la propensione alle arti marziali, e quindi in grado di produrre spirito combattivo in abbondanza, nel momento in cui provano una determinata emozione; siccome ogni essere umano ha delle emozioni più caratteristiche di altre, avrà anche qualche colpo energetico che potrà sfruttare meglio rispetto ad altri. Il colpo principale di Ranma (Hiryu Shotenha) prevede di coinvolgere lo spirito combattivo dell’avversario in una danza a spirale, miscelando l’energia calda con la propria energia fredda prodotta reprimendo il proprio spirito combattivo, e causando un tornado una volta arrivati al centro della suddetta spirale grazie alle correnti termiche miscelate; il colpo di Ryoga (Shishi Hoko Dan) permette di sparare letteralmente la propria tristezza e depressione sull’avversario, colpendolo con dell’energia “emotivamente pesante“. Non riuscendo a padroneggiare lo Shishi Hoko Dan Ranma produce il Moko Takabisha, che con lo stesso principio spara all’avversario la propria arroganza, ma risulta essere un colpo frivolo e inutile. Ho sempre apprezzato questo stile e queste particolari soluzioni, perchè sebbene semplicistiche ricordano la grande importanza che le emozioni rivestono in ogni shonen (che la Takahashi in qualche modo ha parodiato), sia per quanto riguarda le motivazioni dei personaggi sia per l’effettiva efficacia vera e propria dei colpi nei combattimenti cruciali. Ma la realizzazione di tutto questo è stato indubbiamente facile, e possibile, proprio in virtù della forte componente umoristica di questo manga, che garantisce una più ampia sospensione dell’incredulità. Nel 1996 Ranma termina ed inizia Inuyasha, che rappresenta una chiara rottura con questo stile, ma preferisco parlarne collocandolo nel suo momento storico più appropriato.
La seconda opera di cui voglio parlarvi quest’oggi è la mia preferita di sempre, il cui primato per il sottoscritto è rimasto intoccabile nonostante siano molti i titoli che mi hanno appassionato, e si tratta di manga un po’ strano (e ti pareva, poteva mai piacermi una cosa normale?). 3×3 Occhi di Yuzo Takada è stato pubblicato dal Dicembre 1987 al Settembre 2002 sulla rivista Young Magazine della Kodansha, specializzata in seinen manga e foto di idol emergenti. Tranquilli, non mi sono contraddetto: inizialmente non ero intenzionato a parlare di questo manga sebbene negli anni della sua pubblicazione abbia assunto alternativamente tinte shonen e seinen, ma l’indugio è stato rotto quando ho riletto l’intervista rilasciata dall’autore nel 1992 per le Edizioni Star Comics, pubblicata nel settimo numero di Kappa Magazine (datato Gennaio 1993):
Penso che esistano vari tipi di autori, alcuni abilissimi a disegnare e altri superbi nel comporre le storie, e tutti molto orgogliosi del loro lavoro. Al contrario, io ho poca fiducia in me stesso: sia per quanto riguarda il disegno, sia nell’inventare le storie, ho sempre bisogno di sforzarmi molto per combinare qualcosa di buono. (…) Ho ancora molto da imparare, ed è per questo che considero 3×3 Occhi un lavoro che ha soddisfatto unicamente le esigenze dei ragazzi più giovani. E non mi piace considerarlo un successo assoluto. (…) L’unica differenza è che fino ad ora le storie dedicate ai mostri sono sempre state concepite sulla falsariga del filone inaugurato a suo tempo da GeGeGe no Kitaro (di Shigeru Mizuki ndRegola). Io invece ho cercato di modificare quei canoni conformandoli alle esigenze dei lettori di oggi. (Yuzo Takada, 1992)
Il punto a cui volevo ricollegarmi, importante da tenere presente per quando affronteremo alcuni titoli del filone youkai (spiriti giapponesi), è proprio legato a quest’eredità di Shigeru Mizuki, altro autore della prima generazione che ho volutamente tralasciato sapendo che sarei arrivato a parlare di questa serie. I manga dalle tematiche sovrannaturali e horror sono pochi nell’ambiente shonen, sia perchè possono portare ad alcune scelte di sceneggiatura impopolari, sia perchè fino a quel momento erano ancora prigionieri di una castrante tradizione. E a rompere questa tradizione è proprio Yuzo Takada, che prendendo spunto da miti non giapponesi struttura e crea un suo vero e proprio pantheon di entità, che saltuariamente hanno visto intrecciate le loro vicende col genere umano giustificando (nel manga) la nascita di quelle che oggi conosciamo come religioni. Ma Takada, in questo suo lavoro vuole essere moderno, e ambientandolo ai giorni nostri (la storia inizia effettivamente nel 1987) richiama a sé la maturità raggiunta dal genere umano nel ventesimo secolo, grazie al potere e la consapevolezza concessi dalla scienza.
Protagonista della vicenda il giovane Yakumo Fuji, figlio di un antropologo morto qualche anno prima mentre cercava tracce di antiche civiltà nel Tibet: come eredità il professor Fuji invia Pai a Tokyo, l’ultima esponente della razza dei Sanzhiyan Hum Kara, il mitico popolo dotato del terzo occhio in possesso dell’arte che conferisce immortalità ed eterna giovinezza, dal suo poco più che adolescente primogenito. E per prevenire l’accidentale morte di Yakumo nel primo capitolo, Pai incosciamente assorbe la sua anima e lo trasforma in un mostro immortale, un Wu, uno schiavo al suo servizio che dovrà proteggerla se non vorrà veramente avere a che fare con la morte, quella definitiva. Da questo spunto partono infinite avventure (3×3 Occhi, durato quindici anni, è stato raccolto in 40 volumi) alla ricerca di un metodo per tornare umano (lui) e trasformare in umana Pai realizzando così il suo unico sogno, ma le insidie sul loro percorso sono tali che la semplice immortalità di cui Yakumo è in possesso non lo rende invincibile, anzi, nella prima parte della storia non è strano vederlo sbudellato ogni due pagine nel tentativo di proteggere la sua duplice Triclope (Pai ha infatti due personalità, la più vecchia viene chiamata semplicemente Sanzhiyan).
3×3 Occhi possiede anche elementi harem nella prima parte, in cui Yakumo attira l’attenzione di giovani ragazze a cui salva la vita nonostante i rischi per la propria persona (esistono molti modi per liberarsi di un immortale, soprattutto se questi è debole), ma questi elementi vengono meno con l’avanzare della storia che raggiunge la sua piena maturità con la quarta serie, detta Legend of Trinetra. Le prime tre serie (volumi 1-2, 3-5, 6-12) fungono da introduzione e preambolo per la vera battaglia che Yakumo, Pai e i loro compagni dovranno affrontare, in una spirale di eventi che avrà un’influenza planetaria… in modi che lo shonen classico difficilmente azzarderebbe. Inoltre, molti dei personaggi di questo manga sono esseri umani, ed è per loro impossibile o molto difficile affrontare gli svariati demoni che compaiono sporadicamente: al centro dell’azione c’è sempre Yakumo, e qualche volta anche la Triclope Pai quando riesce a sfruttare quegli immensi poteri che ogni creatura delle tenebre brama di possedere per sé. Figura centrale nei combattimenti è quasi sempre il protagonista, che per lottare sfrutta soprattutto quelle che vengono definite come larve, demoni inferiori in possesso di capacità spesso basilari che lo “stregone” può evocare dopo aver stretto un contratto di sangue, semplicemente donando loro la sua energia vitale. Non spirituale, ma vitale, tendo a sottolineare, l’energia in 3×3 Occhi può tranquillamente essere considerata di origine metabolica, tant’è che quando Yakumo la esaurisce viene privato anche delle funzioni deambulatorie più elementari (il suo vantaggio è quello di non morire per l’esaurimento delle scorte) e la sua rigenerazione, la caratteristica più ambita della posizione di Wu, viene anche compromessa e rallentata. (La rigenerazione dei Wu è una delle più potenti che abbia mai visto, essi impiegano all’incirca due settimane per rigenerarsi dopo essere stati completamente obliterati.)
Con un po’ di malizia è possibile vedere nel sistema della larve il suggerimento che ha portato alla nascita dei Pokemon (creature catturate ed evocate che combattono al posto di un essere umano, proprio come le larve). Nel manga compaiono anche arti magiche di ogni sorta, il cui utilizzo è sempre connesso all’uso di simboli trascritti, o nel caso degli incantesimi “più potenti” grazie a formule pronunciate a voce: tutto cio’ è possibile sempre grazie all’uso delle energie vitali, che a differenza del sistema larve in questo caso possono essere prese in prestito dalla Terra o da amuleti di ogni sorta; sono frequenti, per questa ragione, riferimenti tantrici. Takada non diventa mai troppo metafisico, resta sempre connesso alla materialità e volubilità della realtà, al punto tale che arriva a citare concetti di chimica cerebrale, o dell’anatomia umana, per spiegare molti fenomeni. La sua stessa concezione della morte lo trasporta definitivamente in un ambiente narrativo più maturo, che non è più assimilabile al linguaggio shonen, permettendogli di procedere per la sua strada tagliando il traguardo con uno di quei finali che lascia il lettore sorridente ma con un amaro retrogusto…
Grazie a questi elementi, e le decine di creature mostruose disegnate dall’autore, con uno stile che gli è valso il soprannome di Lovecraft del Sol Levante, Takada è uno di quegli autori ad avere trasportato nel mondo moderno il genere di manga basato sugli youkai, eredità che darà vita negli anni successivi a manga che hanno appassionato milioni di lettori. Il successo di Takada (molti appassionati di manga dello scorso secolo annoverano ancora questo titolo fra i loro preferiti) non è dovuto a una serie anime, la realizzazione degli Oav delle prime due serie lascia alquanto a desiderare, e quindi i quindici anni di pubblicazione (pausa più pausa meno) sono dovuti a quella che è stata un’ottima ricezione da parte del pubblico, che ha permesso al manga di procedere per la sua strada presentando una trama più semplice di quanto molti potrebbero aspettarsi, ma arrivata a conclusione dopo una perfetta maturazione apparentemente non forzata da necessità editoriali. Che sia il vantaggio di pubblicare su una rivista meno competitiva? (Eppure in quegli anni su Young Magazine uscivano Akira e Ghost in the Shell.)
Semplicemente spostandoci di casa editrice siamo incappati in due manga completamente diversi da quelli fin’ora presentati, un’alternativa al dominio di Jump in questo metalinguaggio che non volevo ignorare (così come non ignorerò quelle successive), che ci dimostra ancora una volta che non esiste un solo modo per fare shonen. Guardando indietro al mio percorso personale, e queste due opere a cui tengo particolarmente, mi rendo conto di quanto siano fondamentali per comprendere le radici della mia moderna passione per gli shonen harem (di cui come sapete ho scritto una guida) come pure la mia tollerenza per fanservice ecchi, che non sono poi così abbondanti in queste opere, ma che inspiegabilmente fanno storcere il naso a lettori da due decenni; è facilmente intuibile anche cosa non trovo come lettore in alcune opere Shueisha, sebbene ripeta sempre come alcune siano riuscite ad appassionarmi. E sempre la Shueisha tornerà protagonista nel prossimo appuntamento insieme a malvagi stregoni, valenti cavalieri e possenti dragoni.