L’Angolo del Blurry #21 – Rospi che parlano romano…

 Credetemi. E’ frustrante dover tornare un numero imprecisato di volte sullo stesso argomento, certo poi che le mie parole saranno fraintese da chi le vuole fraintendere, capite da chi le vuole capire, rigettate da chi le vuole rigettare. Tra gli esseri umani, solo una minima parte è realmente capace di seguire un ragionamento, valutarne le implicazioni e, infine, cambiare la propria idea se quella espressa si rivela più convincente. La maggior parte di noi, per lo più, mette in atto ciò che in psicologia si chiama “bias di conferma” e, semplicemente, lascia che le cose gli entrino da un orecchio e gli escano dall’altro. Forte di questa consapevolezza un po’ xenofoba – lo ammetto – mi appresto a cominciare l’ennesima inutile dissertazione sulle mie traduzioni, sul giapponese, sui Rospi, e sui luridi maleducati che parlano con la bocca grondante di ignoranza.

Il confronto tra persone e la discussione si basano su una semplicissima possibilità che la logica dei discorsi prevede: la possibilità di divergere. Non bisogna a tutti i costi essere d’accordo. Grandi scienziati hanno insistito a manifestare il proprio disaccordo nei confronti di teorie considerate finali e risolutive, e alla fine sono riusciti a dimostrare di aver ragione, o comunque di aver fatto bene a divergere dall’opinione di menti brillanti almeno quanto le loro. Sì, ma qual è il punto? Il punto è che per sostenere una opinione bisogna anzitutto aver capito – più o meno profondamente – quello di cui si sta parlando. E pensateci: c’è solo una cosa più fastidiosa dell’essere criticati da persone che non hanno né le competenze né la voglia di capire quanto serve per poter criticare a ragion veduta. Ovvero, quando queste persone sono anche offensive  e  profondamente maleducate. Quanto è recentemente accaduto a Tanuki su un forum che non nominerò è un chiaro esempio di questa strafottenza imperante in Italia, ma anche altrove. Ora, Tanuki è un signore, e come tale ha risposto a tono a chi ha addirittura dubitato che traducesse realmente dal giapponese. Io non sono altrettanto pronto alla battuta e alla risoluzione così diplomatica e allo stesso tempo decisa. Questi avvenimenti mi fanno arrabbiare tremendamente e, dopo aver adeguatamente controllato il mio sdegno, cerco di sciogliere il disappunto scrivendo articoli come questo. Stavolta ho deciso di affrontare tout court il problema delle traduzioni dal giapponese utilizzando come pretesto affermazioni che ho letto su questo blog e sul forum dove Tanuki è stato scandalosamente insultato.

Prima che saltiate a conclusioni affrettate:

1) Quando andrò a leggere i commenti a questo post non vorrei trovare una sfilza di “Bravissimo” o “Blurry sei grande” o “Continua così e fottitene degli altri”. A chiunque fa piacere l’assenso altrui, io non faccio eccezione, mi sembra ovvio. Anzi, una persona tendenzialmente insicura come me è particolarmente galvanizzata dall’apprezzamento altrui e altrettanto infastidita e rattristata dall’opposizione. No, io vorrei leggere vostre riflessioni personali, cose che mi facciano capire che voi questo post l’abbiate letto soffermandovi per comprenderlo, non semplicemente scorso con gli occhi per cercare di capire più o meno il senso e commentare con una delle solite frasi di massima.

2) Questo non è un post contro. Questa vuole essere una riflessione per. Inizialmente avevo pensato di scrivere un articolo simile a questo confrontando traduzioni mie o di altri ragazzi di Komixjam con altre traduzioni reperibili in Italia. Ma questo ha senso? Certo, magari fornirebbe esempi per meglio comprendere certe affermazioni che faremo in seguito, ma inevitabilmente si trasformerebbe anche in una operazione contro qualcuno che a nostro parere lavora in modo approssimativo. E questa è una nostra opinione, che non vogliamo in nessun modo promuovere tra i nostri lettori e che non serve a niente.

3) Questo post è una riflessione “per”, nel senso che esso ha semplicemente lo scopo di informare. E informare è la cosa più importante che si possa fare, perchè significa fornire a chi legge gli strumenti per valutare e quindi giudicare. E di conseguenza essere libero di scegliere. Questa è un’arma a doppio taglio perchè non di rado può caderne vittima anche chi ha fornito l’informazione. In altre parole, se io adesso informo voi, e se voi recepite le informazioni nel modo più proficuo possibile, non solo saprete qualcosa che prima non sapevate, ma avrete anche gli strumenti per controllare me e di conseguenza per poter ribattere ad armi pari su questioni che, altrimenti, vi vedrebbero meno preparati di quanto – per necessità e per virtù – sia io.

Partiamo da una premessa fondamentale. Io non sono un appassionato di manga in senso stretto. Ne conosco pochi, ne leggo ancora meno. Generalmente leggo solo in manga che traduco, pochissimi altri. Non sono uno di quelli che conosce a memoria tutta la bibliografia dei singoli autori o che leggono ogni settimana tutte le serie del Jump. Questo perché i miei studi mi lasciano poco tempo libero, ma anche semplicemente perché i manga non sono la mia vita. Però mi piacciono molto e cerco di informarmi quanto posso. Sono sempre molto contento di conoscere ragazzi e ragazze che invece hanno una grandissima cultura in questo campo, mi diverte parlare con loro e piano piano un po’ di cultura me la sto facendo anche io.

Io sono fondamentalmente un appassionato di lingue – niente battutine please. In particolare, come ormai sanno anche i muri, studio giapponese da quando avevo 15 anni (ora ne ho quasi 21) e questa lingua rappresenta a tutti gli effetti una mia grandissima passione, qualcosa che fa parte di me e senza la quale non potrei vivere. Ci sono stati d’animo, sentimenti e idee che esprimo meglio con il giapponese piuttosto che con l’italiano, perché nessun concetto è esattamente traducibile da una lingua all’altra, e spesso ci si innamora di un concetto che si riesce ad esprimere compiutamente solo in una lingua differente dalla nostra. Nel mio caso questa lingua è il giapponese, senza dubbio. Dopo 6 anni di studio posso dire di capire bene il giapponese scritto, di scriverlo in modo soddisfacente, di capirlo e di parlarlo decentemente. Probabilmente potrei vivere in Giappone adattandomi dopo qualche mese. La mia passione per le lingue, però, nasce al liceo. Ho frequentato un liceo classico di Firenze dove, chiaramente, sono stato esposto alle lingue classiche e a continue prove di traduzione. Adoro anche solo l’aspetto morfologico di una lingua, il modo in cui i verbi si trasformano per coniugarsi è qualcosa che per me ha allo stesso tempo un che di magico e un che di tremendamente concreto. Per me studiare la morfologia di una lingua significa in realtà analizzare il ragionamento, demolire un concetto fino ai suoi componenti essenziali: da un miscuglio di colori isolare i colori fondamentali che l’hanno composto in diverse proporzioni. Ridurre tutto ad un unico antenato, un unica radice. Entrare in contatto con l’essenziale, quello che da il senso ad una parola. Il suo “tema”. Quello che la rende diversa e la identifica.

Questo però è ancora un livello di studio un po’ solipsistico. Siete tu e i tuoi verbi che cambiano forma e colore. Dov’è che la lingua si vivifica? Certamente nel suo aspetto comunicativo. Ogni lingua è strutturata secondo la mentalità del popolo che parlandola l’ha creata. Anche l’ambiente modifica la lingua: in Finlandia hanno tantissimi modi per dire “neve”, noi ne abbiamo due o tre. In giapponese ci sono decine di modi per dire “io” o “tu”, noi ne abbiamo uno solo. Non solo. Ogni lingua è diversa dalle altre nel modo in cui è strutturata la forma di comunicazione: il rivolgersi all’altro ha modalità differenti a seconda del popolo e conseguentemente della lingua. Ogni lingua ha, in definitiva, un sapore che è dato dal modo di “dire le cose” e “costruire le frasi”. Ne consegue che, quando si vuole tradurre da una lingua all’altra, in realtà non si possa rispettare la purezza del messaggio originale. Per tradurre un concetto da una lingua all’altra è necessario trovare una espressione che sia in grado di avvicinarsi a quella della lingua dalla quale si sta traducendo: non ne esiste quasi mai una assolutamente identica. Ci sarà sempre una piccola differenza di “sapore”. Questo è vero per le lingue neolatine e per quelle germaniche, e a maggior ragion è vero anche quando si tratta di tradurre in italiano un testo giapponese, prodotto di una cultura e di un popolo che spartisce con noi ben poco. In altre parole: in giapponese è quasi sempre impossibile tradurre alla lettera, e il senso originale è difficilissimo da mantener,e proprio perchè più una lingua è lontana da un’altra, più il suo sapore sarà dato da ingredienti di cui l’altra lingua è completamente povera. Tradurre dal giapponese all’italiano è un po’ come fare una torta di mele senza poter usare le mele. Qual è la soluzione? Devi sostituirle con qualcosa che ci somigli e che dia l’idea di come poteva essere il sapore dell’originale.

Questa metafora mi soddisfa. Chi ha studiato una lingua come il giapponese e la conosce al punto da poter tradurre un manga è passato attraverso uno studio complesso e laborioso. Ma per tradurre bisogna anche amare l’idea che c’è dietro la traduzione. Cosa significa tradurre? Tradurre per me significa ricercare. Trovare il modo di far capire. Quando leggo un manga è come se stessi mangiando un dolce squisito. Siccome sono una persona a cui piace molto condividere – anzi, credo che la condivisione sia l’unica cosa veramente esaltante della vita – mi assale subito la voglia di spartire una fetta di torta con gli altri, in questo caso voi lettori. Ma come faccio? Voi non sapete il giapponese, se vi facessi assaggiare la torta così come la sto mangiando io voi non sentireste alcun sapore. Allora devo anzitutto memorizzare perfettamente il sapore della torta che sto mangiando. Poi, arriva il difficile: devo pensare a come rifarla utilizzando gli ingredienti che la mia lingua mi mette a disposizione. E questa chiaramente per un traduttore è la parte divertente, quella veramente goduriosa: ingegnarsi a riprodurre il sapore di qualcosa di inimitabile. A volte ci si riesce, altre no. Ma si fa sempre del proprio meglio.

Uscendo dalla metafora, tradurre per me significa catturare atmosfere più che parole e riprodurle nella mia lingua. Questo richiede anche coraggio, perchè a volte capita di dover completamente stravolgere una frase per poter fare un gioco di parole anche nella traduzione italiana, oppure per enfatizzare a dovere una frase che in giapponese è stata sottolineata dall’uso di un certo verbo piuttosto che un altro. Recentemente pare proprio che sia saltata fuori tanta gente che non capisce il perchè dell’uso del dialetto romano (più o meno romano, io sono solo mezzo laziale e dunque non sono bravo) nella traduzione dei dialoghi dei rospi in Naruto. Io – e altri per me – spiego spesso il motivo, ma altrettanto spesso non viene capito. Nel manga di Naruto i rospi parlano tutti, senza eccezioni, il dialetto di Hiroshima, un dialetto giapponese meridionale che suona molto buffo e “grezzo” alle orecchie dei lettori giapponesi. Questo lo so perchè in Giappone ho avuto modo di chiederlo a un po’ di persone che hanno confermato quanto vi sto dicendo. Quando mi sono posto il problema di come tradurre, ho pensato: “questa cosa per un giapponese suona grezza, un po’ buffa e non sempre del tutto comprensibile”. E allora mi sono detto che la soluzione migliore sarebbe stata quella di tentare l’utilizzo di un dialetto anche in italiano. E sono convinto di aver fatto la scelta giusta proprio quando la gente rimane perplessa di fronte a questa soluzione: è esattamente l’effetto che deve fare. Dite che rovina il manga? Beh, allora sappiate che la colpa è di Kishimoto, non mia, non di Tanuki. D’altra parte personaggi che parlano in dialetto sono presenti in Bleach, One Piece (una miriade), e quasi tutti i manga. Solo che si preferisce non tradurli, anche perchè nella traduzione inglese non si riesce a intuire l’utilizzo di un dialetto e dunque la cosa si perde già a questo livello.

E’ stato detto che qui su Komixjam si pone l’accento sulle traduzioni dal giapponese per coprire carenze altrove e per screditare la concorrenza. Da quello che ho scritto spero che risulti chiara soprattutto una cosa: la traduzione dei manga per me non è una gara a chi traduce nel modo più figo, raffinato e cool. Io amo tradurre e lo faccio perseguendo l’obbiettivo che vi ho descritto prima: far assaggiare ai lettori un manga che abbia un sapore quanto più simile a quello originale. C’è chi ritiene che questo non sia così importante o che si ottenga anche traducendo dall’inglese. Io penso invece che si possa ottenere soltanto dal giapponese. Ma, badate bene, è la mia opinione. Ognuno segue la strada che ritiene opportuna e più consona ai propri desideri, inclinazioni e capacità. A me non interessa ciò che fanno gli altri. Io sono impegnato nella mia ricerca, una ricerca che mi diverte, mi migliora come persona e fa avanzare la mia passione per l’idea di mettere in comunicazione popoli lontani, perchè la comunicazione porta condivisione. Forse adesso penserete che la sto facendo tanto lunga per un paio di manga: mi va benissimo che la pensiate così. Per me si tratta di un’attività mentale di ricerca incessante della soluzione più naturale, più spontanea. Che mi rende più contento e più convinto di avervi fatto assaggiare una torta buona/cattiva/amara/aspra/rancida come quella che sto mangiando io. Niente di più. In altre parole, faccio quello che mi fa stare meglio sperando che renda contento anche chi legge. Se fare questo significa “tirarsela”, essere “arroganti” o denigrare chi fa altrimenti, beh, allora qualcosa non va. Qualcosa di grosso.