Hikikomori, esistenze in isolamento

 Recentemente mi sono imbattuta in questo termine, Hikikomori ed ho voluto capire qualcosa in più su questo fenomeno.

Letteralmente significa “ritirarsi, isolarsi” e viene utilizzato per indicare un particolare fenomeno sociale manifestatosi negli ultimi anni in Giappone che vede protagonisti centinaia di migliaia di giovani, per la maggior parte maschi, che decidono di isolarsi completamente dal mondo esterno abbandonando la scuola, il lavoro e qualsiasi rapporto interpersonale, anche con i propri familiari.

Il termine Hikikomori si usa per indicare sia il fenomeno che i soggetti che ne sono affetti, i quali si rinchiudono nello stretto spazio di una camera da letto o di un monolocale e l’unico contatto con il mondo lo hanno attraverso la televisione ed internet, attraverso i propri alter ego virtuali.

Questo tipo di auto-reclusione può arrivare a durare anni, durante i quali gli Hikikomori evitano di incontrare e di parlare con altre persone, diventando sempre più timidi, leggono fumetti, giocano ai videogame, guardano la tv; se escono lo fanno solo di notte, per procurarsi del cibo nelle dispense delle proprie case o, se vivono da soli, per recarsi presso un konbini (supermercato aperto 24h), evitando quanto più possibile qualsiasi contatto con altre persone.

Il fenomeno viene associato a quello britannico della NEET Generation (Acronimo che sta per “Not in Employment, Education or Training” con cui il governo indica appunto quei giovani che “Non lavorano, non studiano né hanno contratti di formazione”), così come sembra avere delle attinenze con quello dei parasite single, espressione con la quale si indicano quelli che in Italia vengono definiti “mammoni” o “bamboccioni”, adulti che a 30 o 40 anni vivono ancora con i propri genitori. La diffusione del fenomeno Hikikomori in Giappone sembra essere legato agli aspetti sociali e culturali caratterizzanti il Paese del Sol Levante. Secondo il dott. Tamaki Saito, specialista da anni impegnato nello studio di questa patologia, questi fattori rivestono un ruolo fondamentale. Laddove nella società occidentale il disagio giovanile e l’emarginazione sociale danno vita a fenomeni legati ai disturbi alimentari (anoressia e bulimia) oppure vengono espressi attraverso un moto di ribellione, che può sfociare nell’uso di alcol e droga, nella società giapponese anche questa forma di ribellione muta sembra conformarsi agli standard sociali. L’Hikikomori prova vergogna per la sua condizione, incapace di sopportare la pressione della famiglia e della società che gli impongono il raggiungimento di standard elevati sia a scuola che sul lavoro. L’elevata considerazione dell’opinione altrui nella consapevolezza di sé spinge l’Hikikomori a nascondersi, ad evitare un confronto con il mondo che non è in grado di affrontare, l’incubo del fallimento lo spinge alla rinuncia, a rinchiudersi in un mondo limitato ed anestetizzato, dove non esistono conflitti, né responsabilità, dove nessuno è invitato ad entrare e dove quindi nessun altro all’infuori dello stesso Hikikomori può avere voce in capitolo. Le azioni si ripetono ossessive in una routine quotidiana che non vuole raggiungere alcun obiettivo, in una dimensione temporale senza meta.

A quanto pare i casi di suicidio tra gli Hikikomori sono molto limitati, secondo il dott. Sato a salvarli è il loro narcisismo, una forma di autocompiacimento che impedisce loro di togliersi la vita. Probabilmente perché l’auto-reclusione costituisce per loro l’equilibrio perfetto, non hanno più bisogno di pensare e riconsiderare se stessi in funzione di un obiettivo, di rapporti interpersonali o di convenzioni sociali, non ci sono sforzi o responsabilità in una vita completamente autoreferenziale.

Le famiglie sembrano incapaci di provvedere da sole alla riabilitazione di un soggetto Hikikomori, per diversi fattori che le rendono in parte responsabili dello sviluppo di questa patologia. Bisogna tener conto dell’amae, quella dipendenza parentale per la quale i genitori saranno sempre portati a prendersi cura del figlio, ed il figlio a rispettare i genitori e dipendere da loro, nonostante la situazione di conflitto. La pressione del giudizio sociale porta infatti la famiglia a vergognarsi del figlio Hikikomori, che viene rimproverato e spinto quindi ad aumentare le proprie barriere e a rinchiudersi sempre di più.

Bisogna quindi rivolgersi a strutture specializzate nelle quali si potrà usufruire dell’assistenza psicologica per affrontare il precorso riabilitativo necessario per una completa guarigione. In questo senso opera anche un’associazione di volontariato, la New Start, che si occupa proprio di questo fenomeno. I volontari diventano dei “fratelli” o “sorelle in prestito” che avvicinano in modo graduale l’Hikikomori e lo accompagnano durante il programma di riabilitazione.

A quanto pare il fenomeno non è più circoscritto al Giappone, ed anche in Italia sono stati riscontrati casi di Hikikomori.

Personalmente non mi sento di giudicare queste persone, in fin dei conti è una reazione determinata da un disagio con il quale tutti facciamo i conti nella vita. Ognuno reagisce in modo diverso, e tra i vari disturbi che possono insorgere questo sembra essere il più “indolore”. In questo modo però si potrà anche evitare il dolore, ma insieme ad esso si evita tutto il resto, in una dimensione sospesa di non-vita e non-morte. Il tempo passa inesorabile e non aspetta nessuno, e visto che già non è che ne abbiamo poi tanto a disposizione, tanto vale godersela a pieno la vita e cercare di sfruttare le infinite possibilità che ci offre. Voi cosa ne dite?

Vi lascio infine con un video tratto dal primo episodio di Welcome to the NHK, anime che parla proprio dell’Hikikomori. (Link alla pagina di Wikipedia)

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