Bakuman vs Hayate no Gotoku – una sfida sul metafumetto (1)

 

Non siate spaventati dal titolo, in realtà l’argomento che voglio affrontare, sebbene sfaccettato e complesso, è di per se molto semplice. Quello che voglio fare oggi (e la prossima settimana) è lasciarmi andare in una delle cose che più mi piacciono: le lunghe disquisizioni sul metapensiero sul mondo dei fumetti, e in questo caso particolare, proprio di manga che parlano di manga. Un pò come ho fatto con “Riflettori su” all’inizio di questo mese con Medaka Box: ho inserito quel manga nel mio spazio mensile per poterlo trattare, e affrontare la questione del metafumetto (metamanga si può dire?) senza doverlo considerare nella trattazione, e limitarmi a usare i due nominati nel titolo. Ho preferito tenere fuori anche Manga Bomber per il suo tono parodistico, mentre dovendo parlare di manga che trattano manga è ovvia e scontata la scelta di Bakuman… ma immagino vi starete chiedendo, cosa c’entra Hayate no Gotoku??! Ogni risposta verrà data, tranquilli. (Non ho rimosso volutamente i testi dalle immagini scelte per quest’articolo, perchè legati alla trattazione.)

Trap, Ashirogi Muto.

Bakuman è il secondo manga della coppia Ohba&Obata, consacrati al pubblico anni prima dal più noto Death Note, manga che ha rinnovato un genere, creato cloni e sconvolto i lettori di Jump. Personalmente, preferisco Bakuman per motivi che non stiamo qui ad analizzare… ma tengo a sottolineare il fatto che lo considero un manga che può essere letto da chiunque sia appassionato di fumetto giapponese, che può piacere o meno, ed è spesso una fonte ricca di informazioni e riflessioni su questa realtà di un paese quasi ai nostri antipodi. E quello di cui sto per parlarvi oggi è una delle mie chiavi di lettura.

PCP, Ashirogi Muto.

Il problema, almeno per quanto mi riguarda, rispetto a Bakuman è che non mi ha dato così tante informazioni nuove, erano quasi tutte cose che più o meno sapevo già grazie alla lettura di tanti manga e articoli riguardanti questo mondo sin dagli anni ’90… uno dei motivi del successo di Bakuman è stato di aver portato tutte queste conoscenze al grande pubblico, in modo che i lettori di tutto il mondo potessero infine avere un’idea più o meno chiara di quale sia il lavoro e la carriera tipica di un fumettista giapponese. Ovviamente, come ben saprete, la commissione della Shueisha era scettica su questo titolo che mirava a spiegare come nasceva e veniva prodotto un manga, a partire dall’ideazione del soggetto alla stampa delle tavole, ma i due autori sono riusciti a miscelare gli elementi romanzandoli al punto giusto, in modo da non dare una chiara idea di cosa sia corrispondente alla realtà e cosa non lo sia. Poi, un pizzico di malizia nella lettura non guasta: è ovvio che la sceneggiatrice ha attinto a piene mani dalle sue esperienze lavorative, anche quelle con Weekly Shonen Jump, per scrivere la storia, ed è plausibile che aldilà di alcuni degli stereotipi ridondati che come autore possiede, credo abbia inserito diversi riferimenti ad autori realmente esistenti. Se volete qualche mia opinione, il personaggio di Eiji Niizuma mi ha sempre ricordato una strana fusione di Eiichiro Oda e Oh Great!, Kazuya Hiramaru per esempio, il genio che si inventa fumettista e inizia a pubblicare, mi ricorda autori come Hiro Mashima (che è noto aver deciso di intraprendere la carriera di fumettista dopo aver vinto un premio con la one shot Magician).

Reversi, Ashirogi Muto.

Gli stessi protagonisti, Moritaka Mashiro e Akito Takagi sono sempre stati identificati come alter-ego dei due autori reali, proprio per la natura del loro rapporto di lavoro: in realtà, Ohba e Obata procedono con un metodo di lavoro “concettualmente” simile, ma pieno di differenze. I due autori, infatti, comunicano via fax e tramite il loro redattore (che cura anche quasi tutti gli incontri col pubblico, essendo entrambi molto riservati); tengono in egual modo conto dell’opinione dell’altro ma le loro aree di competenza sono molto più definite. Obata, a differenza di Mashiro non da quasi mai la sua opinione per quanto riguarda lo sviluppo della trama, avendo riconosciuto personalmente di non essere mai stato un capace sceneggiatore.

Crow, Eiji Niizuma.

In Bakuman si parla molto di manga e di persone che consacrano la loro vita a questa passione trasformandola in un lavoro, viene spesso sottolineato che è un mondo in cui sopravvivere è difficile, e bisogna essere sempre competitivi per continuare ad avere successo. Niente di più vero e falso allo stesso tempo, la storia ci insegna che alcuni autori vengono consacrati al successo e ogni loro opera verrà presa in considerazione e vista con l’occhio permissivo dell’appassionato; autori emergenti, infatti, devono faticare dieci volte di più per ritagliare il loro spazio. Il problema, quello che al mio occhio ha sempre stonato, è il modo in cui viene raccontato il vissuto, da parte di un autore, del fallimento di una serie su Jump: a tratti sembra la fine della carriera, ma nessuno tra tutti i mangaka che compaiono tiene minimamente in considerazione il fatto di aver pubblicato sulla rivista più letta e prestigiosa in assoluto, e potrebbero tranquillamente abbassare le loro pretese diventando gli artisti di punta di qualche rivista o casa editrice meno importante. Weekly Shonen Jump pubblica, solitamente, venti serie: c’è posto quindi per venti autori che possono, almeno prendendo in considerazione una certa fetta di mercato, considerarsi tra i migliori del loro ambiente, sia che il loro manga arrivi primo ai questionari, sia che arrivi ventesimo. La filosofia di vita “Jump o morte” può andare bene per qualche personaggio, non per tutti.

Otter 11, Kazuya Hiramaru.

Quale idea di “manga” può quindi uscire da una storia che si imposta su queste rotaie? Gli autori si ammazzano di lavoro, si stressano, rinunciano alle vacanze al solo scopo di produrre capitoli che siano validi, e la parte più stressante di tutto questo è indubbiamente quella legata alla sceneggiatura: Akito e i problemi che affronta sono uno dei temi principali del manga, soprattutto quando si rende conto che il suo socio è diventato un vero professionista e gestisce il suo lavoro in modo esemplare, riuscendo ad avere tempo anche per produrre schizzi e fare tavole di prova su manga che probabilmente non pubblicheranno mai. Ma dietro tutto questo lavoro, sebbene mosso dal desiderio di produrre un manga che possa appassionare e divertire il lettore, alla fine si parla soltanto di soldi. Fin qui niente di male, perchè è gente che con i manga ci porta il pane in tavola (e chi non pubblica non mangia, ricordo ancora quando Ikeda disse che la sua prima affermazione dopo la serializzazione di Rosario Vampire fu “finalmente posso mangiare“), ma arriva al lettore quest’immagine del manga che deve essere interessante per vendere. Ma cosa vuol dire, che un manga deve essere “interessante”? Come si rende un manga “interessante”? Questo non viene detto apertamente, Ohba ha una sua idea personale di cosa voglia dire “interessante” e la lascia intendere attraverso svariati riferimenti in tutta la storia. Più che altro, sembra quasi voglia dire che i suoi manga sono interessanti…

 

In realtà, molti mangaka hanno studi meno spaziosi.

 

Storie interessanti, personaggi carismatici, colpi di scena assestati al momento giusto, il tutto condito da un bel disegno che è, per certi versi, semplice da raggiungere in confronto alle tre caratteristiche elencate per prime. Tante volte non è facile però, perchè di idee geniali non se ne hanno tutti i giorni (e quelle che si hanno vanno ben gestite e strutturate), e perchè spesso il pubblico ha un’idea tutta sua su cosa sia interessante e come debba svilupparsi un manga che gli piace (e del pubblico, in Bakuman praticamente se ne parla pochissimo). Fatto sta che nonostante sia impossibile sfornare settimana dopo settimana idee stratosferiche è necessario comunque offrire al pubblico questi elementi per andare avanti. Non so voi, tutto questo, a me che sono lettore di manga da un ventennio, è parso tutto tremendamente riduttivo. Perchè in sintesi, l’idea per un manga che venda secondo Ohba è che la storia sia sensata (al punto da dover procedere secondo i progetti dell’autore e non del tipografo) e disegnata bene. E questo, come tante cose in Bakuman, è vero e allo stesso tempo non lo è.

Da un manga che parla di mangaka mi aspettavo qualcosa di più, sinceramente, e non la complessa giustificazione delle motivazioni che hanno portato Ohba a scrivere la sua precedente opera… ma quello è il limite di Bakuman, un manga distante, lontano dal lettore proprio perchè lo sono gli autori stessi. Un manga che descrive un mondo, simile a una piramide, osservandolo dall’alto verso il basso, e quando qualcosa (come la base della piramide) è così lontano non puoi riuscire ad occhio nudo nel distinguerlo bene. Qui, come potrete immaginare, entra in gioco Hayate no Gotoku che fornisce alla questione quel punto di vista che è venuto a mancare, ma qualora siate interessati dovrete aspettare la prossima settimana per la seconda parte di questa mia trattazione.