Il mondo dei manga è sempre segnato da svariati eventi e coincidenze che risultano tanto più interessanti quanto più i titoli in questione hanno avuto successo… nel 1997, tra le tante cose che accaddero, iniziarono anche due manga che vedevano come protagonisti una ciurma di pirati: uno che conoscono in pochi, mentre l’altro è diventato il manga più venduto nella storia (probabilmente anche il fumetto in generale). In quell’anno, su Weekly Shonen Jump cominciava One Piece di Eiichiro Oda, manga come tutti sappiamo ancora in corso, che rappresenta la sua opera di esordio, e probabilmente quella che sarà la più significativa di tutta la sua carriera.
Ignoro quali aspettative nutriate su questa mia analisi: probabilmente alcuni di voi vorrebbero leggere di motivazioni che giustificano opinioni positive o negative, ma non è mia intenzione schierarmi in maniera netta, mantenendo una posizione perlopiù neutrale, storicizzante, diciamo. Perchè parlare di shonen manga senza tenere presente One Piece sarebbe un po’ come rifiutarsi di citare Cristoforo Colombo tra gli esploratori del Rinascimento. La mia intenzione principale è quella di analizzare il fenomeno, e le caratteristiche del suo successo inquadrando il lavoro di Oda da svariati punti di vista, senza adagiarmi troppo nei dettagli del fumetto stesso per evitare una trattazione troppo minuziosa e dettagliata. Sia perchè perderei la visione “dall’alto“, sia perchè ritengo che ci siano persone più preparate del sottoscritto per operare un’analisi enciclopedica di One Piece. E spero che queste mie visioni “dall’alto“, sebbene a volte personali, possano risultare perlomeno interessanti. Iniziamo dunque ad analizzare le motivazioni del successo di questo manga, che ci piaccia o meno.
Nel 1995, come già sappiamo, Toriyama terminava Dragon Ball, e l’anime che stava riuscendo a tenere in animazione artificiale i fan terminò poco dopo, nel 1996 (evitiamo di parlare di GT). In pochi mesi, dopo aver seguito le avventure di Goku e soci per oltre dieci anni, i giovani giapponesi si ritrovarono senza nulla da leggere e nulla da vedere. Non che fosse realmente così, ma la fine di Dragon Ball aveva lasciato un vuoto incolmabile nell’immaginario di molti lettori, che auspicavano a un ritorno di Toriyama in grande stile (mai avvenuto). Eppure, senza dover aspettare troppo, nel 1997 un giovane misconosciuto si presentò al pubblico con un nuovo manga, con uno stile particolare, molto più personale di quanto si fosse visto fino a quel momento, pronto ad accompagnare milioni di lettori nel superamento di quel lutto che pareva insormontabile. Gli elementi c’erano tutti, era shonen, era divertente, energico, aveva sapore di novità, il titolo era composto di due parole facili da ricordare che rimandavano implicitamente alla ricerca di un tesoro (uno, non sette), con un protagonista dall’appetito insaziabile che aveva ereditato il legame con le scimmie del suo predecessore. One Piece è il perfetto sostituto per Dragon Ball: i giovani giapponesi possono tornare a sognare, ad acclamare un manga che rappresenti loro, la loro cultura e la loro nazione in tutto il mondo. Ciononostante One Piece non è Dragon Ball, è diverso, ne accoglie l’eredità ma non risulta essere pesantemente incatenato dai canoni narrativi prestabiliti dal manga di Toriyama (se volete una mia opinione personale, tra i big3, quello che più ripresenta elementi dragonballiani è Bleach).
Oda è una persona che stimo come professionista: se fossi un fan di One Piece non mi stancherei mai di lodarne il lavoro, probabilmente, ed è per questo che comprendo in parte dell’entusiamo di molti. Come fumettista egli rappresenta per eccellenza l’entusiasta, il ragazzino che ha realizzato il suo sogno e venduto milioni di copie, ma allo stesso tempo è uno stacanovista tra gli stacanovisti sempre attento alle reazioni dei suoi lettori, di cui accoglie l’entusiasmo che converte come benzina necessaria per continuare a sognare. Oda è forse il primo, e sicuramente il più noto di tutta quella generazione cresciuta a pane e manga, marchiato a fuoco dal sogno di diventare fumettista (non che i suoi predecessori fossero diversi, ma venivano da un periodo in cui la loro professione era vissuta diversamente.) Le sue tavole sono sempre estremamente lavorate, ricche di dettagli… quello che Oda versa senza sosta sulla carta a volte non mi sembra inchiostro, ma sangue e sofferenza. Il suo lavoro negli anni è diventato intricato, pesante, scuro e opprimente come quello di uno dei suoi autori preferiti, Leiji Matsumoto (sebbene l’influenza piratesca sia derivata da Vickie il Piccolo Vichingo.. ho letto svariate volte in passato che Oda era fan del lavoro di Matsumoto, ma non ho una fonte ufficiale sottomano). Oda dettaglia ogni angolo del foglio senza coprirlo, o nasconderlo semplicemente con uno sfondo. A volte è addirittura lo sfondo a essere protagonista. Per quanto mi riguarda Oda è il professionista “ideale“, vedo e leggo il suo lavoro, il suo tormento e la sua fatica, e li riconosco, così come riconosco il suo successo ma non cedo di fronte alla tentazione di utilizzare il superlativo relativo.
Spesso sento dire che Oda è il migliore fumettista al mondo in virtù del fatto che è quello che vende di più. Non posso concordare con quest’affermazione in nessun modo, perchè sarebbe come sostenere che gli One Direction fanno la miglior musica al mondo (Midnight Memories pare proprio essere l’album più venduto al mondo nel 2013). Il successo di un mangaka dipende dalla combinazione di tre qualità: talento, impegno e fortuna… e sebbene Oda sia in possesso di una ampia dose di questi tre fattori, devo poter accettare anche che possa esistere una persona dotata di più talento ma poco impegno e/o fortuna (o qualunque combinazione non equilibrata delle tre), perchè il successo è qualcosa che non dipende mai solamente dal proprio lavoro, ma da tanti, troppo fattori, che per i mangaka possono essere sintetizzati nei tre che ho elencato. Tutti gli autori che ho avuto modo di ascoltare/leggere in questi anni hanno sempre sostenuto che il successo dipende da questi fattori; Takeshi Obata rispose che il segreto era “disegnare, disegnare, disegnare“, quando gli venne chiesta la chiave del suo successo. Oda risulta essere stato una persona capace, instancabile e al posto giusto nel momento giusto.
Nel 2014, oltre sedici anni dall’inizio della serializzazione di One Piece, cosa ci è rimasto di quest’autore? Ho letto svariate interviste di Oda, e negli anni sembra quasi che il suo entusiasmo iniziale si sia spento, si sia ingrigito fino a fargli dichiarare che probabilmente dopo One Piece si dedicherà a storie brevi, autoconclusive (come Toriyama); abbiamo un Oda che dorme poche ore a notte, con pesanti ripercussioni sulla sua salute, che hanno portato al ricovero forzato dell’estate 2013, costringendolo a mettere il manga in pausa. Un Oda che in tutti questi anni potrebbe aver pensato di mollare in qualunque momento, di chiudere e non imbarcarsi in una produzione di cui afferma da sempre di conoscere solo il finale, che pare tuttavia essere ancora molto lontano. Perchè un mangaka non è una macchina, è un essere umano: chi può affermare con certezza che Oda non cambierebbe niente dei 733 (attualmente) capitoli realizzati? Gli esseri umani cambiano con gli anni, soprattutto quando così giovani, ed è impensabile che quest’autore sia la stessa persona di quando, poco più che ventiduenne, iniziò a lavorare a One Piece. Merito il suo di non essere mai caduto in contraddizione, di aver mantenuto un discorso apparentemente coerente negli anni; odio parlare di coerenza, perchè la ritengo da sempre essere qualcosa di profondamente relativo... eppure Oda è riuscito negli anni a restare fedele a un’idea per certi versi esistente soprattutto nella mente dei suoi lettori, senza tradirsi ma faticando nella ricerca di innovazione. E questo ci trasporta nella complicata questione della lunghezza dei manga di successo attualmente in corso.
Un dato di fatto innegabile è che i manga a pubblicazione settimanale siano diventati, col cambio di secolo, talmente tanto lunghi da sembrare interminabili (la durata media delle serie è praticamente raddoppiata). Ma bisogna tenere presente che, rispetto alle produzioni della generazione precedente, i manga moderni possiedono mediamente molti più personaggi e vengono realizzati con tecniche di sceneggiatura, e di costruzione della tavola più elaborate, che hanno portano alla realizzazione di opere in cui sono curati soprattutto i dettagli, i fondali, gli ambienti e le atmosfere. Negli ultimi anni la narrazione nei manga si è fatta più dettagliata, ma allo stesso tempo lenta perchè costruita più nella tavola che nella vignetta, e meno immediata laddove non vi fosse l’estro di una autore dotato di capacità di sintesi e sceneggiatura. Tenendo presenti queste due innovazioni, la ricerca da parte dei lettori di trame più complesse, o meglio organizzate in certi casi (l’idea che gli shonen moderni siano tutti focalizzati sulla trama in modo ossessivo è lontana dall’essere assoluta… ritengo che in alcune opere, per alcuni artisti e lettori, questa sia trattata come una caratteristica accessoria, anche quando presente), permette di giustificare “l’apparente” maggiore lunghezza di certi titoli; ciononostante fra tutti lo stile narrativo di Oda si dimostra più lento ad avviarsi rispetto a quello di qualunque suo collega, ma in qualche modo inesorabile, colossale come un’onda anomala. Eppure il problema non è neppure questo, ammettendo che la lunghezza sia giustificata da tecniche e stili personali, quello che mi appare inverosimile è il lasso di tempo in cui Oda ha prodotto tutti questi capitoli: che ci sia stata una rottura mi appare quindi inevitabile. Trecento ottanta milioni di copie vendute in tutto il mondo (stando alle ultime stime) non valgono la salute di un persona.
Ignoro quanto Oda pianifichi a lungo termine il suo lavoro. Di sicuro nella lavorazione della sceneggiatura è avanti di qualche decina di capitoli rispetto a quello che sta producendo, ma ritengo che, nella sua inesorabile avanzata verso il centesimo volume e per quell’alone di auto-referenzialità emanata da One Piece, le sue capacità di pianificazione siano state ampiamente sopravvalutate, come quelle di molti altri autori (…) poichè il lavoro del mangaka è soprattutto incentrato sulla tavola che sta disegnando in quel momento, non su quella che vorrà disegnare tra tre mesi: una buona realizzazione risucchia necessariamente molte energie e risorse, in quantità che possono variare da autore ad autore (perchè come sempre ogni autore ha i suoi personali standard minimi da rispettare) ma che non possono essere sicuramente tante. Focalizzarsi sul presente (me ne rendo sempre più conto mentre scrivo questa parte e progetto le prossime) è faticoso. Quanto i suoi cinque assistenti gli semplifichino il lavoro non saprei neppure dirlo: certo è che non avevo mai sentito parlare di un autore con uno staff di supporto così numeroso, motivato, probabilmente, dal fatto che il capitolo settimanale di One Piece debba necessariamente essere impeccabile dal punto di vista tecnico. E nonostante questo non riesco ad immaginare che Oda deleghi molti degli aspetti vitali della produzione di ogni tavola di questo manga, che sente sicuramente molto “suo“. (Questo non vuol dire che abbia carta bianca, nonostante i redattori abbiano indubbiamente fiducia nel suo operato, anche Oda ha delle regole da rispettare. “Oda non uccide” cit. Ciampax)
Scendiamo un po’ più in profondità, e analizziamo lo stile “shonen” di Oda. Parliamo del metalinguaggio di Oda, che non è una lingua universale, ma sicuramente è una di quelle più praticate: da entusiasta perfezionista Oda è un autore che punta soprattutto a produrre un manga che soddisfi una versione quindicenne di sè stesso (testuali parole). Questo vuol dire, in pratica, che il primo lettore a dover essere soddisfatto è proprio la versione giovanile dell’autore… è questo un modo di rapportarsi al lavoro di mangaka che considero quasi esclusivo di Oda, perchè sebbene tutti gli autori abbiano in mente un “lettore ipotetico” da accontentare, nessuno ha mai parlato così chiaramente di questa figura; verrebbe quasi da pensare che One Piece sia tutto un immenso soliloquio, o un sogno ad occhi aperti! Quest’idea stessa mi appare molto strana, particolare, ma in qualche modo adatta alla figura in questione. Avere se stessi come proprio primo lettore significa alzare l’asticella delle aspettative di molto (e Oda afferma di essere un perfezionista solo quando lavora al manga), ma significa anche parlare molto di sè stessi, o di come si ricorda la propria versione quindicenne, e mettere al centro dell’attenzione ciò che personalmente si considera “figo“. In tutti questi anni Oda ha accompagnato i suoi lettori presentando il suo stile personale, mettendosi personalmente in gioco spesso molto più di quanto potrebbero averlo fatto altri autori (che avranno preferito agire in maniera più oculata e calcolata), ha parlato con la voce esasperata ed agitata che caratterizza un po’ il genere manga in generale ed è riuscito a farsi capire da milioni di lettori. Tante persone non si sono trovate d’accordo con lui (tipo il sottoscritto), preferendo altri toni, altri stili e altre tematiche forse in virtù del fatto che nella comunicazione ogni affermazione richiama a sè anche la sua negazione. Lo ripeterò fino alla nausea, One Piece non mi piace, come non apprezzo troppo l’elitarismo e lo sbandieramento di posizioni che mi paiono inappropriate in ogni ambito, ma ho letto il manga (ok, forse non tutto, non lo leggo da Aprile 2012) e ci sono stati momenti in cui ho trovato qualcosa che mi è piaciuto, come la saga di Alabasta, di Water Seven… Ci sono momenti in cui il messaggio di Oda arrivava in tutta la sua forza, in cui le emozioni in ballo erano comunicate in modo da essere state apprezzate anche da un “rompiscatole” come il sottoscritto. Certo, quando leggo un volume di One Piece alla fine ho il “mal di testa“: i personaggi mi paiono urlare tanto e qualsiasi cosa, eppure anche io non sono riuscito a non commuovermi di fronte alle lacrime (urlate) di Bibi o di Chopper (mio personaggio preferito prima dell’arrivo di Franky). Semplicemente, io e Oda parliamo due lingue diverse.
Da un autore che ha fatto del character design di stampo freak e della fantasia dei veri e propri marchi di fabbrica, penso che Oda sia riuscito pienamente a trasmettere “libertà” nella resa dei suoi combattimenti (teatralità e inganno, direbbero alcuni). I suoi personaggi, in certi momenti bizzarri o buffi, riescono in qualche modo a essere sempre fedeli a quello che è uno stile costruito dall’autore negli anni: è indubbio che un personaggio possa e non possa piacere, ciononostante è innegabile che si riuscirebbe facilmente a distinguere un personaggio creato in “stile Oda” da uno creato da Oda, anche istintivamente, qualora si sia letto il manga per molto tempo (vorrei tanto parlare di character design shonen in maniera più ampia, ma quest’oggi rischierei di allungare troppo la trattazione, progetto di farlo con un altro titolo). Fantasia vuol dire soprattutto soffermarsi su quella che può essere la scena più divertente in un determinato momento: in pratica, l’effetto scenografico di un nuovo colpo è tanto più efficace quanto meno era stato preannunciato dai capitoli precedenti. Per questo vedo Oda come un autore che non ha bisogno (e non deve ricorrere eccessivamente) di archi narrativi incentrati sull’allenamento, perchè l’impatto del suo scontro è costruito proprio attraverso la sorpresa (basta pensare ai Gear). Il problema, se vogliamo, è che col tempo potrebbe aver esaurito tecniche ed idee per alcuni personaggi, ed è dovuto correre ai ripari: la necessità di rendere il suo protagonista e altri personaggi comunque competitivi ha portato all’inserimento del concetto di Haki nel manga… scelta che in certi momenti ho percepito come poco popolare. A un certo punto è come se Oda avesse deciso di fornire una giustificazione più complessa di “è uno shonen manga” al suo lavoro, quasi volesse proporre una totale rilettura del suo lavoro. Giusta o sbagliata che sia è la prova che un autore e un’opera non possono restare fossilizzati in una forma ideale per troppo tempo; poichè la questione stessa dell’Haki è molto complessa in termini di metalinguaggio, ritengo che il suo inserimento sia stata una scelta attentamente valutata. La supposizione che l’idea sia stata sempre presente nella mente di Oda poco convince lo scettico sottoscritto, credo piuttosto che sia stato fatto un lavoro immane di revisione per introdurre qualcosa che non stonasse con quanto era stato fatto fino a quel momento… il punto è che il tutto mi appare come l’intenzione di dare un nome, sottolineare e strutturare con precisione a una dinamica shonen già nota, che spesso viene indicata come “destino” o semplicemente “predestinazione“. Dare un nome a qualcosa di già esistente è indubbiamente molto gratificante, Oda ha sicuramente valutato molto l’impatto sul pubblico di questa scelta (conferendo l’Haki anche ad altri per alleggerire l’attenzione che poteva attirare un protagonista tuttologo?) complicando secondo alcuni il suo sistema shonen, quando mi pare che alla fine la dinamica narrativa secondo la quale il cazzotto del protagonista è più forte “perchè questi ha un motivo per volere vincere” sia perfettamente integra. È solo passata all’anagrafe.
Per queste, e tante altre ragioni, non me la sono mai sentita di screditare il lavoro di questa persona (tranne in alcuni momenti di ira più o meno passeggera), ma neppure di elevarlo ai cieli. È la prima volta che parlo di One Piece in un mio articolo, e probabilmente sarà anche l’ultima, poichè ho sempre pensato che nel farlo avrei dovuto presentare una riflessione completa anche se complessa, e aspettavo in qualche modo l’occasione migliore. Parlando di One Piece in questa sede posso presentarvelo nel suo aspetto che considero più interessante: un successo storico e mondiale. E credo si dovrebbe ringraziare quest’autore, in quanto ci sono cose che possono essere capite tramite contrasto… le persone possono scoprire cosa cercano anche attraverso quello che non fa per loro. Stimo Oda per il suo lavoro e la sua professionalità, per aver contribuito a rendere la mia passione (i manga) in generale più comune, più condivisibile e meno di nicchia. In questa mia confusionaria visione che sto cercando di presentare in modo ordinato, dopotutto, è un altro l’autore che manderei a dissodare l’Aspromonte con una vanga spezzata.
Chiudo qui, indubbiamente preoccupato su quella che potrà essere la reazione a questo mio scritto (ma non così tanto.. l’ho pubblicato, dopotutto). Probabilmente se non fossi mai divenuto un blogger su Komixjam non sarei mai andato oltre il cinquantesimo volume del manga, perchè come lettore e appassionato non sono mai stato troppo interessato a confrontarmi con quello che sostanzialmente non riesce a suscitare il mio interesse. Ma come scrittore credo fosse anche mio dovere tentare l’approccio per essere soprattutto “completo“, e ho riflettuto davvero tanto prima di scrivere questa parte e infilarmi in quella mischia di persone che chiamano One Piece “merda” o “capolavoro“, senza rendersi conto che, fondamentalmente, esistono solo persone che pensano che One Piece sia “merda” o un “capolavoro“. One Piece è un fumetto come tutti gli altri, da leggere se piace, da ignorare se non piace. Spero di sopravvivere a quest’appuntamento… perchè nel prossimo si resta su Jump con un altro titolo dal successo globale, con dei fantomatici “cacciatori” come protagonisti.
P.S.: l’altro manga sulla pirateria era Avanti Tutta Coco!

























