Kimi no Iru Machi – Recensione Anime

 

Quello di cui voglio parlarvi quest’oggi è un titolo che, sebbene non tra i più attesi della stagione, è indubbiamente uno dei più conosciuti tra quelli iniziati in questa estate, per il manga pubblicato in Italia dalla GP Publishing: Kimi no Iru Machi (A town where you live). Dei ventitre volumi di questo manga ancora in corso, pubblicato in Giappone dalla Kodansha, in Italia ne sono arrivati per ora diciassette. Che un progetto animato di Kimi no Iru Machi fosse nell’aria lo si sapeva già da diverso tempo, dai due OAV prodotti il Giugno 2012: il responso positivo da parte dei fan deve aver spronato la casa editrice a promuovere la produzione di questo anime affidandolo allo studio Gonzo, non proprio uno dei più conosciuti. Ma dietro questo progetto di adattamento del manga di Kouji Seo ci sono nomi quali la sceneggiatrice Reiko Yoshida (K-On!, Get Backers e l’infame Saint Seiya Omega) e il direttore di animazione Junichi Hayama (Hokuto no Ken 2, Yu-Gi-Oh!, e alcuni episodi di Shinsekai Yori). Date le premesse era ovvio che avrei riservato particolare attenzione a questa serie, di cui per ora sono stati trasmessi 5 episodi.

Kimi no Iru Machi racconta la storia di Haruto Kirishima, un normalissimo ragazzo giapponese, che vive nelle campagne vicine a Hiroshima in un villaggio che ha sufficienti studenti appena per comporre una classe per anno accademico. Un bel giorno la tranquilla vita di Haruto viene sconvolta dall’ingresso, in essa e in casa sua, di Eba Yuzuki, una ragazza di Tokyo figlia di amici di famiglia, che per svariati problemi taciuti all’inizio, si è trasferita per finire le superiori in questo ridente villaggio di campagna. La convivenza, inizialmente forzata, diventa naturalmente parte della vita quotidiana di Haruto che si prende cura della sua ospite come fosse una principessa: l’accompagna a scuola in bicicletta, cucina per lei e si occupa delle faccenda domestiche con una maestria tale da farlo sembrare la “donna di casa“. A poco a poco Eba e Haruto si innamorano, ella sostituisce anche il posto che Haruto aveva riservato nel suo cuore per il suo platonico amore delle superiori (nei confronti di Nanami Kanzaki); ma purtroppo la vita di questa ragazza è talmente complicata da imprevisti, incomprensioni e crisi famigliari che ben presto dovrà lasciare “la sua nuova casa” e tornarsene a Tokyo: al buon Haruto la situazione non piace, ma rimane fedele a Eba e alla loro relazione a distanza fintanto che le cose sembrano mettersi male, e lei interrompe i contatti senza alcuna spiegazione. A quel punto Haruto, contro l’opinione di tutti, decide di recarsi a Tokyo con la scusa degli studi e del suo sogno di diventare un cuoco, per scoprire cosa realmente è accaduto nei mesi in cui lui ed Eba non si sono visti… e sarà questo il vero inizio della complicata storia sentimentale che vede questi due personaggi come protagonisti.

L’anime vuole infatti partire da questo punto, dall’arrivo a Tokyo di Haruto. Molti non hanno apprezzato (anche il sottoscritto, per certi versi) la scelta di saltare tutta la parte di Hiroshima considerata quella più innocente e ricca di freschi sentimenti da molti dei fan del manga, relegando alcuni degli eventi principali a flashback che spezzano in modo orrendo la narrazione. I sentimenti e le motivazioni di Haruto vengono narrati mano a mano che avanza nella ricerca di Eba, che sembra volere far di tutto per evitare di incontrarlo. Nel frattempo Haruto sembra riuscire a ricavarsi uno spazio anche nella frenetica Tokyo, quasi spinto dalla necessità di “sentirsi a casa“.

Una delle qualità particolari di questo prodotto è la presenza di personaggi che parlano dialetti di svariate regioni del Giappone, dell’accento che hanno acquisito nella loro terra di origine; fondamentalmente un’altra delle continue metafore al “luogo di appartenenza“, alla “casa“, presenti in Kimi no Iru Machi; nell’anime questo aspetto è stato ovviamente mantenuto. Tale aspetto è stato per il sottoscritto fonte di curiosità, dandomi la possibilità di sentire altri dialetti oltre quello più famoso del kansai, che spesso non vengono utilizzati nell’animazione, dove il doppiaggio risulta avere una lingua differente da quella realmente usata nella vita di tutti i giorni. Dal punto di vista tecnico non vi è molto da far notare: opere del genere non necessitano di animazioni eccessivamente complesse, conta molto di più la qualità dei fondali, i dettagli negli spazi dove i personaggi vivono e come le musiche vengono utilizzate per meglio incorniciare la scena. E da questo punto di vista il prodotto non è assolutamente scadente (semplicemente nella media), e come sapranno già i fan del fumetto la dose di fanservice non è eccessiva: solo qualche tipica inquadratura dal basso piazzata qua e la, quando i personaggi sono vicino a scalinate… più qualche scena di nudo e intimo. Inopportune? Sicuramente non invasive.

Eppure se mi permettete, l’attenzione a questo prodotto non è stata dal sottoscritto accompagnata a un’adeguata soddisfazione. Sebbene, come sia risaputo, il genere shonen romantico sia il mio preferito (ho scritto anche una guida al riguardo) Kimi no Iru Machi fa parte di quei titoli che non mi sono mai piaciuti, e le cause, ovviamente sono da ricercarsi nella figura della protagonista, Eba. Non sono mai riuscito a empatizzare con la figura di questo personaggio su cui ruota necessariamente la trama, e ho abbandonato la lettura del manga pressappoco dove quest’adattamento animato di dodici episodi dovrebbe arrivare (capitolo più, capitolo meno). Altro problema che tormenta questo tipo di prodotti animati oramai da anni (e che quindi non è solo di Kimi no Iru Machi) è la superficialità con cui vengono spesso sviluppati: ben sa chi come il sottoscritto è stato un appassionato di questo genere, domina l’abitudine di proporre serie di dodici o ventiquattro episodi, a volte anche solo qualche OAV, che non renderanno mai giustizia alla versione cartacea (un altro esempio potrebbe essere Video Girl Ai) e che pressapoco hanno la stessa funzione di una pubblicità. Tante volte, sarebbe meglio non avere per niente un adattamento animato piuttosto che doverne accettare uno indegno.