Devo essere sincero: scrivere questo articolo si è rivelato più difficile di quanto credessi originariamente. Dopo averlo abbozzato per bene ed averlo riletto, ho trovato che mancassero molti punti fondamentali e quindi sono andato a correggerlo. Fatto questo, però, mi sono reso conto non solo che l’articolo diveniva troppo lungo, ma anche che ero uscito dallo spirito iniziale e dal taglio originale che volevo dare a questo testo. A quel punto ho cestinato tutto ed ora eccomi qui, a riscrivere da capo l’articolo, iniziando subito col dirvi dove ho trovato il problema.
Il manga di Kishimoto, a differenze delle opere di Oda e Kubo, è quanto di più vicino ad un “manga storico” esista: in un certo modo, nonostante tutta le invenzioni di cui l’autore infarcisce la sua opera, la presenza di innumerevoli riferimenti a miti, leggende, nomi della storia Giapponese e Cinese, riferimenti più o meno velati a situazioni reali avvenute nel corso del periodo “feudale” del Giappone stesso, mettono “Naruto” in una posizione particolare: se da una parte è un puro “shounen fantasy” (credo che l’aggettivo sia abbastanza appropriato, considerato il taglio narrativo), dall’altra esso sembra una piccola “enciclopedia di riferimento” ai miti e leggende Giapponesi.
Tutto ciò, al di là delle immagini e di ciò che viene raccontato, è sottolineato in maniera profonda anche dalla scelta linguistica. Come già detto, Kishimoto è, tra i tre, quello che maggiormente segue la “grammatica esatta” della lingua Giapponese: a differenza di una lingua come l’Italiano, in cui essere “grammaticati” impone di essere fedeli alle regole di costruzione sintattiche e alla scelta dei vocaboli adeguati, nella lingua giapponese (quella scritta) c’è un terzo fattore “fondamentale” senza il quale tutto questo andrebbe in malora: la scelta del “simbolo” giusto.
Ricordate che la lingua Giapponese si fonda su due “alfabeti” (hiragana e katakana) e su una raccolta di oltre 30000 simboli ideografici (kanji) attraverso il quale comunicare le frasi scritte: bene, in questa lingua, c’è un ordine preciso (non scritto ma universalmente accettato da tutti) per cui determinate “parole” devono essere rappresentate, in un testo, da determinate sequenze alfabetiche o da un preciso (o più) kanji: tutto ciò viene determinato dalla “valenza” che quel termine ha nella frase, dal significato intrinseco che gli si vuole dare, dalla forza con cui quel termine deve essere rappresentato rispetto agli altri e così via. Vi faccio un esempio, tanto per capirci, con la parola “cuore”: in Giapponese, a seconda del concetto, possiamo tradurla nei modi seguenti
- 心 (kokoro) – questo kanji rappresenta il termine “cuore” inteso come l’organo umano (non quello degli animali, attenzione!). Spesso viene scritto, soprattutto nei testi scientifici, nella sua forma hiragana こころ, e in alcuni casi, in forma katakana ハアト (haato, che è la “traslitterazione” del termine “heart” inglese);
- 意気 (iki) che viene usato nel senso di “spirito, anima” e, in alcuni casi, soprattutto quando il termine non è riferito ad un soggetto bene definito, viene scritto nella sua forma hiragana いき;
- 胸襟 (kyoukin) inteso nel senso del “cuore di una persona”, come centro nevralgico di ciò che tale persona è, termine che viene scritto sempre e solo in kanji;
- 胸三寸(munesanzun) termine, anche questo scritto in kanji, che indica i “sentimenti, il modo di sentire” di una persona;
- 温情(onjou) anche questo termine, scritto in kanji, rappresenta il cuore come “culla dei sentimenti”, ma specifica quelli positivi e puri;
- すぽ根 (supokon) termine specifico (composto da due hiragana e un kanji) che indica il cuore (come organo) di un atleta;
- 我心 (wagakokoro, anche nella versione composta わが心, due hiragana+kanji) termine specifico che indica il cuore (sia in senso di organo che come residenza dei sentimenti e dello spirito) di chi parla.
Come vedete, ci sono tante possibilità (mi sono limitato a quelle più immediate o d’effetto, se volete, ma ciascuna di esse potrebbe essere scissa in tanti altri casi particolari) che, chi volesse usare una forma “scritta” del giapponese grammaticalmente impeccabile, dovrebbe tenere a mente. Ecco Kishimoto fa praticamente questo: la sua ricercatezza e perfezione nello scegliere il termine giusto nel posto giusto sono quasi maniacali e sottolineano benissimo la sua idea di narrazione, così regolare e rigorosa, quasi come una strutturazione poetica fatta di figure retoriche e scelte stilistiche ben organizzate. Leggere Naruto in originale è un perfetto esercizio di stile: permette di percepire le sfumature diverse che certi termini (che noi tradurremmo in italiano con lo stesso termine, come sopra appunto) non assumono solo a causa del contesto, ma anche, e soprattutto, in base alla scelta della parola che viene usata. E’ una cosa che, in realtà, esiste anche in italiano, ma che spesso ci sfugge, a causa della bassa conoscenza che abbiamo del “vocabolario” della nostra lingua: tutavia, in giapponese, assume una forza maggiore poiché, non solo il significato, ma anche il suono (nella lingua parlata) e la rappresentazione (nella lingua scritta) generano una peculiarità “emotiva e significativa” in riferimento al termine che si vuole evidenziare.
In quest’ottica, ecco la scelta, a volte molto particolare, dei nomi delle tecniche: mentre noi diamo una traduzione “sensazionalistica”, nel senso che il nome della tecnica immediatamente deve farci pensare a questo o quell’altro colpo mortale, nell’originale la scelta di un certo termine “sinonimo” di quello che abbiamo usato nella traduzione è fondamentale per svelare “misteri e segreti” della tecnica. Vi faccio un altro esempio citando una delle tecniche che, attualmente, tengono vivo il combattimento nella Grande Guerra: la tecnica della Resurrezione operata da Kabuto.
In originale il nome della tecnica è il seguente: 口寄せ 穢土転生(Kuchiyose – Edo Tensei), dove il primo è un termine composto da due kanji e un hiragana, mentre gli altri due termini sono entrambi composti da due kanji. La traduzione, letterale, della tecnica sarebbe la seguente:
“Evocazione – Trasmigrazione dell’anima nel nostro mondo (impuro)”
Bisogna fare attenzione ai termini usati da Kishimoto, tuttavia: il termine evocazione rappresenta, infatti, solo la definizione di “tecnica spirituale” (o di spiritsmo, se volete). Infatti, se vogliamo intendere la parola “kuchiyose” come possibilità di evocare e dare allo spirito la facoltà di agire nel mondo, ci troviamo di fronte ad un problema: l’arte del “kuchiyose”, in questo senso, può essere effettuata, infatti, solo se l’evocatore è una donna; negli altri casi, ciò che è possibile fare è solo “spostare” materialmente un’anima da un luogo ad un altro, così come ci è suggerito dagli altri due termini. Essi infatti appartengono al vocabolario Buddista, e indicano, rispettivamente, il “nostro mondo” (inteso come “non puro” in contrasto con l’aldilà, “puro”) e il concetto di “trasmigrazione dell’anima” (che, se scritto nella forma 展性 sta ad indicare, invece, il concetto di manipolazione). Ecco dunque il vero “significato” della tecnica: un atto evocativo in cui, semplicemente, il padrone della tecnica strappa le anime al mondo spirituale per rigettarle nel nostro mondo e manipolarle! Come vedete, con il nome scelto da Kishimoto, la tecnica è perfettamente spiegata in ogni suo minimo dettaglio!
Questa perfeta costruzione dei termini si rispecchia anche nella scelta dei nomi: dal “campo di spaventapasseri” Hatake Kakashi, fino alla “primavera degli alberi di ciliegio” Haruno Sakura, Kishimoto fa sempre molta attenzione a scegliere in maniera precisa i termini tra diverse possibilità, in modo da fornire un significato definitivo e unico a tutto ciò che nomina nel manga. Questo permette, al lettore nella lingua originale, di crearsi un perfetto schema mentale di ciò che può essere la storia in relazione alla forza con cui certi termini vengono usati, e del resto sin dal principio lo stesso Kishimoto aveva, volontariamente, fornito indizi sulle origini del protagonista, Naruto Uzumaki ナルトうずまき: fornendoci, infatti, il nome scritto in katakana e il cognome in hiragana (senza alcun kanji) Kishimoto suggerisce, implicitamente, che tutti i significati dei due termini possono essere usati per “capire” con chi abbiamo a che fare. Il termine in kanji 渦巻, infatti, rappresenta il vortice (presente come decorazione sull’abbigliamento di Naruto) ed essendo il congome della madre (come si è scoperto recentemente) fa di lui in qualche modo il “successore” del Villaggio del Vortice, dal quale la madre di Naruto proviene. Questo riferimento al vortice è presente, di nuovo, nel nome: 鳴戸 sta ad indicare il “maelstrom”, vortice marino che “inghiotte ogni cosa”, mentre, sempre con la stessa pronuncia naruto, 鳴門 indica la “rondellina di pesce che si pone, come decorazione, nel ramen (e di cui il nostro personaggio va ghiotto).
Spero che questo breve excursus nella “fraseologia” narutiana vi abbia interessato: se in futuro avrò tempo potrei cercare di essere più specifico, andando ad analizzare, separatamente, nomi dei protagonisti e termini vari presenti all’interno di questo manga. Per il momento vi saluto e vi do appuntamento alla prossima settimana, in cui parleremo dei nomi delle tecniche presenti nel manga di Eiichiro Oda.
