Aoi Bungaku – “Kokoro”

 Drastico, sconvolgente, provocante: 3 aggettivi che aiutano ad inquadrare l’atmosfera che si respira in ognuno dei racconti affrontati finora dalla serie, 3 aggettivi che in questo “Kokoro” assumono una valenza ed un significante alieno a quanto potuto apprezzare finora. “Drastico” è l’adattamento del romanzo omonimo di Souseki Natsume, “sconvolgente” è la scelta di eclissare volutamente parte del romanzo a scapito di altre totalmente inventate, “provocante” è il messaggio e l’interpretazione che in ultima analisi viene sempre lasciata in mano a noi destinatari finali del prodotto “Aoi Bungaku”. Il “problema” di questo “Kokoro” risiede tutto nella gestione narrativa poiché la storia originale subisce un drastico cambio di rotta in molti aspetti fondamentali finendo per diventare un prodotto nuovo e – forse – più vicino all’idea di adattamento che non a quella di trasposizione che molto spesso muove l’intento degli sceneggiatori ma che con altrettanta frequenza finisce per arenarsi sugli scogli dell’anonimato: a differenza dei titoli che l’hanno preceduto, il racconto di Souseki non vuole veicolare nessun messaggio ma guidare lo spettatore nella creazione di una propria opinione sul menage à trois Sensei – K – Ojou-san ed il suo tragico epilogo di sangue, forse l’unico vero filo conduttore dietro alle storie finora narrate. Ironia della sorte, forse un “Akai Bungaku” (letteratura rossa) sarebbe risultata essere scelta ben più appropriata per questo collage narrativo.

 Le vicende narrate sono di una semplicità disarmante: Sensei (lett. “professore”) trascorre le sue giornate fra l’università e la casa dove vive con la giovane Ojou-san (lett. “signorina”) e la di lei madre che lo trattano con la riverenza ed il rispetto che le figure femminili della classicità giapponese devono alla figura maschile della casa. La vita e le stagioni scorrono serene finché un pomeriggio Sensei decide di invitare a casa l’amico K. Il quale sta studiando per diventare monaco e ha fatto dello studio, della privazione e dell’isolamento il solo nutrimento di corpo ed anima negli ultimi anni: inizialmente restìa ad accettarlo in casa per paura di ripercussioni sulla figlia, la vedova accetta il nuovo inquilino previo pagamento di una somma di denaro messa a disposizione da Sensei come garanzia. L’arrivo di K. è l’inizio per lui di un nuovo tipo di rapporto con Sensei e soprattutto con Ojou-san che all’inizio nemmeno considera in quanto donna e quindi essere inutile ma che lentamente inizia a vedere con occhio diverso fino ad innamorarsene e chiederne la mano: sconvolto dalla rabbia e dalla gelosia, Sensei chiede a sua volta alla vedova il permesso di sposare la figlia e la donna è ben felice di concederla al professore che diventerà quindi indirettamente responsabile del suicidio dell’amico la notte seguente. L’ottavo episodio sarà un racconto delle stesse vicende ma narrate dalla prospettiva di K. e non da quella di Sensei. Chi di voi ha avuto il piacere e la fortuna di leggere l’opera originale o la splendida traduzione inglese firmata Edwin McClellan si sarà già da ora reso conto che quanto spacciato come canovaccio narrativo del romanzo omonimo non è altro che una versione semplificata e ridotta dell’ultima parte del racconto: si perde il conteggio delle molteplici libertà prese dagli sceneggiatori e tanto a livello narrativo quanto sotto il profilo stilistico le sensazioni che lo spettatore inizia a provare per i protagonisti sono radicalmente diverse da quelle del lettore del romanzo omonimo: rimane, ovviamente, il nocciolo narrativo principale ma le analogie terminano ben presto, soverchiate dalla tagliente caratterizzazione di un gigantesco K. che ricorda molto da vicino l’Adone stoico e determinato della classicità ellenica giustapposta al fascino androgino e quasi femmineo di un Sensei bello e subdolo come da tradizione tipicamente orientale. Occidente ed Oriente, un confronto che sarà sempre oggetto di analisi nell’opera di Souseki, che fa dei suoi personaggi i portavoce di due culture opposte ma ben conosciute grazie ai 3 anni trascorsi vivendo all’ombra del Big Ben: il Sensei dell’anime, però, manca di tutto il grande studio psicologico che lo porta a spingere l’amico al suicidio d’amore riuscendo (e bisognava sforzarsi!) a far sembrare che l’estremo gesto – nelle intenzioni dell’autore atto d’amore per la ragazza – di K. potesse venire interpretato come messaggio di libertà fino alla fine ed a qualunque costo indirizzato allo stesso Sensei. Solo il finale dell’ottavo episodio accenna, molto vagamente, a ciò che alberga veramente nella mente di Sensei, un sentimento di rabbia ed indignazione sul quale hanno dovuto inventare ex novo un episodio narrando eventi che non esistono.

 A screditare quanto scritto nel precedente e da voi certamente bollato come “noiosissimo” paragrafo, del quale non vi biasimerei certo qualora ne aveste abbandonato la lettura a meno di metà, viene in soccorso la razionale teoria secondo la quale un “adattamento” cela nella sua stessa radice semantica l’idea di modifica o quantomeno di parziale alterazione di un’idea in funzione di un progetto più grande… o comunque diverso. Accantonando solo per un momento le ben motivate ma anche altrettanto pignole rimostranze della disamina qui sopra, è innegabile che quanto messo in scena nei 50 minuti scarsi dei due episodi sia ciò che davvero conta al fine della produzione di un titolo che potesse far discutere tanto i conoscitori del romanzo originale e delle tematiche del Dickens di Giappone quanto il neofita in cerca di un prodotto diverso dal solito ma che, a modo suo, prosegue il cammino sul sentiero iconoclasta nei confronti dei miti della tradizione giapponese: è vero, mancano gli iPod e le gomme americane ma è evidente che il secondo episodio non sia altro che un mezzo originale e slegato dalle pagine rilegate di “Kokoro” per narrare esplicitamente ciò che l’inchiostro non ha saputo trasporre direttamente: le motivazioni per le quali K. decide di farsi monaco: la paura della modernità (tema che influenzerà anche Sakaguchi e che trasporterà, come abbiamo visto, in “Sakura no Mori”) e la mancanza di comunicazione verbale che obbligherà al ricorso agli antichi riti medievali (=il seppuku) per lanciare un messaggio che non sarà altro che un urlo silenzioso, persosi nell’indifferenza della società. Come accaduto fin dal primo adattamento, “Aoi Bungaku” lancia il sasso ma nasconde la mano, lasciando a noi il compito/piacere di discutere sul contenuto detto ma soprattutto – come tradizione orientale insegna – su quello nascosto fra le righe e le sfumature del non detto o solo vagamente accennato: le alterazioni apportate alla trama sono tante e “di peso” arrivando quasi a creare un caso di miscomunication che però è figlio solo di una visione poco lucida e concentrata. Alle successive visioni, sempre più necessarie e consigliate puntata dopo puntata, emerge quello che voleva essere la vera essenza della storia, la lotta fra due posizioni antitetiche ed inconciliabili la cui fine ultima è l’autodistruzione (il Sensei di fine 7° episodio) e la morte come estrema sublimazione di un idea di felicità e realizzazione di sé e dei propri sentimenti troppo lontana dalle concezioni occidentali per poter essere pienamente compresa nelle sue poliedriche sfaccettature. Forse quest’arco sarà il più criticato della serie, resta la disarmante consapevolezza della bontà di una serie che stà regalando a questa prima decade animata degli anni 2000 un finale da iscrivere negli annali.

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