La mia Maetel – Approfondimento sull’Hikikomori

di Regola 3

A qualcuno importa.

Nelle fumetterie, questo agosto o più tardi (poichè alcune fumetterie potrebbero far slittare a settembre gli arrivi causa ferie) troverete il nuovo manga di Hiroya Oku, l’autore di Gantz, pubblicato dalla Planet Manga. Non aspettatevi niente simile all’opera ancora in corso, i “mostri” da combattere non sono assurde bestie provenienti da chissà dove, ma le fobie e i traumi che la vita normale spesso non lesina a distribuire. Shintaro, l’inusuale protagonista, è un hikikomori, dei casi più gravi che mai si siano uditi poichè non esce dalla sua stanza se non per l’uso dei sanitari da oltre 15 anni. Da allora il padre, un uomo buono e onesto lotta contro l’impossibilità del figlio a superare il lutto della morte della madre, senza successo alcuno: nemmeno entrare nel mondo fatto di manga e internet del figlio sembra riuscire a ridurre la distanza, a spingerlo ad aprirsi. La situazione è ristagnante fino al momento in cui non parte una strana scommessa tra padre e figlio: se il vecchio, pelato e inutile impiegato cinquantasettenne riuscirà a trovarsi una fidanzata allora il figlio accetterà la possibilità che ci sia qualche speranza per la propria vita e uscirà dalla sua stanza. Il problema è che suo padre una fidanzata ce l’ha, ma la situazione è talmente assurda da risultare difficilmente credibile, infatti Haruka ha poco più di vent’anni.

 

La relazione tra i due è reale e genuina, poco dopo convolano a nozze nonostante il figlio degenere continui a pensare che sia tutta una farsa. Continua a crederlo fino al momento in cui gli arriva la notizia che il suo vecchio padre è morto, in viaggio di nozze, a causa del tumore che da troppo tempo lo torturava. In seguito a ciò Haruka non riesce a seguire il consiglio di tutti e affidare Shintaro a un esperto, e decide di lottare strenuamente e aiutare il figlio di quell’uomo tanto buono…inizia per i due un percorso arduo e difficile, dove anche la cosa più semplice diventa ardua e sofferta, senza sapere cosa gli aspetta alla fine del percorso, se speranza o ulteriore disperazione.

Il manga è breve, tre soli volumi, prodotto nei ritagli di tempo tra il 2006 e il 2007: la qualità grafica lo testimonia benissimo. Ve ne parleranno male, criticheranno questo lavoro di giocare su una troppo facile drammaticità, diranno che nella vita normale nessun angelo scende dal cielo e cerca di salvarti. Diranno che è un pessimo manga e non hanno torto, eppure anche dalla peggiore delle opere si può trarre un messaggio, riflettere, apprendere. Perchè viviamo in una società globalizzata che è la più superficiale che sia mai esistita, in cui le persone vengono rintronate ed abituate all’idea che tutto va bene, e che questo mondo di fantasia (letture e televisione) è il migliore dei mondi possibili. Quanti ragazzini, per non parlare di adulti, non leggono più un giornale, guardano un tg? Il messaggio deve arrivare anche a loro, e Oku lo fa con vignette e balloons.

 

Che cos’è dunque l’hikikomori? Mi prendo qualche riga e sintetizzo per voi quanto si riesce a trovare (comunque poco) su questo disturbo identificato con precisione poco meno di quindici anni fa, senza usare un linguaggio e fornire dettagli da addetti ai lavori. Il termine è stato adottato per primo da Tamaki Saito negli anni 90, per differenziare da disturbi di altro genere (come l’autismo ed altre patologie) questo fenomeno che ha colpito secondo le stime oltre tre milioni di persone, perlopiù maschi. Gli hikikomori sono giovani che decidono, spesso in seguito a un trauma, di rinchiudersi nella propria stanza rifiutando ogni forma di contatto fisico col mondo esterno e dedicando il proprio tempo a videogiochi (anche online) e manga. Si tratta perlopiù di persone appartenenti a famiglie benestanti, che possono permetteresi il mantenimento di un “parassita”. Gli hikikomori hanno molti elementi in comune, come il farsi lasciare il pasto davanti la porta di camera, scarso igiene, ritmo dormi-veglia sballato, alimentazione scorretta. Alcuni sono costretti a uscire qualora non vi fosse una famiglia a prendersi cura di loro, e lo fanno nelle ore in cui vi è il rischio minore di incontrare persone, andando in market aperti ventiquatto ore su ventiquattro dove a nessuno mai verrà voglia di iniziare una conversazione. Perdono, infine, la capacità di relazionarsi, al punto da non essere in grado di rivolgere la parola a una persona.

Le cause indicate sono svariate, la più accreditata è quella di uno disturbo di tipo sociologico. La particolare natura della società giapponese porta le persone a scontrarsi e a competere fin dai dieci anni, ed è certo che non tutti gesticono lo stress allo stesso modo: consideriamo naturale il fatto che nella vita si possa cadere, siamo meno tolleranti quando dobbiamo accettare il fatto che ci sono persone, che semplicemente, da sole, non riescono a rialzarsi. Se poi consideriamo, che nonostante appaia simile alla nostra, la struttura famigliare giapponese è radicalmente diversa e viene data maggiore attenzione a rispettabilità e successo, possiamo intendere l’hikikomori come un nichilistico rifiuto di se stessi e della società in cui si vive, in cui spesso è anche impensabile una ribellione violenta. Una società, quella giapponese (e anche la nostra occidentale), in cui vengono imposti rigidi schemi per il successo e allo stesso tempo una via di fuga, di evasione, fin troppo semplice da seguire, via che noi conosciamo più che bene.

Vi è speranza? Un hikikomori non si muoverà mai spontaneamente: sono nati tanti gruppi, di volontari, che tentano il recupero di questi giovani, altre associazioni invece hanno progettato e portato avanti con successo della comunità di hikikomori. A volte, di fronte a standard irragiungibili, vorrebbe quasi dirci Oku, bisogna trovare se stessi nel piccolo e nel quotidiano. Vorrei continuare, potrei per ore (dopotutto il tema è anche connesso al mio personale corso di studi), ma rischierei di annoiare. Sottolineo tuttavia, che sebbene in occidente il peso dato dai mass-media sia stato minore, fenomeni di questo genere non sono insoliti neppure dalle nostre parti. I nostri giovani, come quelli giapponesi, rovinano la loro esistenza per colpa di una società che giudica e impone, invece di consigliare e accompagnare.

Vi lascio con uno struggente ed esemplare video di Jonathan Harris.

[youtube 50Y7R5zP0wc]

[Fonti\Planet Manga]

Commenti (3)

  1. Complimenti per l’articolo……davvero.

  2. l’ho appena letto tutto d’un fiato.
    � molto bello.
    La storia ti trascina fino all’ultimo,non pu� essere considerato un manga dozzinale.

  3. Complimenti per l’articolo!
    Interessante e molto sentito.
    Viviamo in una societ� che considera la persona come uno strumento produttivo e ne tralascia quasi totalmente l’aspetto umano. Pu� accadere di reagire in questo modo.
    Vero pure che in questi casi dovrebbero intervenire la famiglia, gli amici o chiunque voglia bene alla persona… (come nel video)
    Se qualcuno fosse interessato ad approfondire lo scontro tra individuo e societ�, consiglio il libro “Ambiente umano e valore di scambio” di Giorgio Manfr�.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato.

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>